Pianosa e il restauro discusso
Una lucida ed argomentata analisi, da parte di uno studioso di livello internazionale, sul modo in cui si è proceduto al restauro della Villa di Agrippa Postumo, a Pianosa. Vi si legge una critica esplicita verso le scelte operate, una critica, per altro, che fa seguito ad altre dello stesso tenore che la avevano preceduta...di Massimo Ricci *
Sono passati molti anni da quando nel 1989 ebbi la fortuna di visitare la Villa di Agrippa Postumo di Pianosa, il nipote dell'Imperatore Ottaviano Augusto. Lo feci raccogliendo l'invito dell'assessore ai lavori pubblici del Comune di Campo nell'Elba che doveva recarsi lì per periziare lo stato di conservazione della piccola scuola elementare fatta per i figli delle guardie carcerarie.
Ottenute le autorizzazioni necessarie, una bella mattina di Novembre, dopo un viaggio di circa un'ora con la motovedetta dela Polizia Penitenziaria, sbarcammo sull'Isola. La sensazione fu quella di essere in un paradiso.
La bella sequenza di fabbricati in uno stile difficile da definire ma che potremmo chiamare "eclettico" per le sue interessantissime peculiarità estremamente originali ed uniche (con espressi riferimenti a quello moresco), faceva bella mostra di sé intorno al piccolo porto, definito da alcuni "il più bel porticciolo del Mondo".
Svolte le brevi formalità con l'Amministrazione Carceraria, ci consigliarono di andare subito a visitare i resti della Villa Romana. La villa si trova a circa mezzo chilometro dal porto, in una zona detta erroneamente "cala Giovanna", in antico chiamata "cala di San Giovanni", prospiciente una piccola collinetta chiamata "collina di Gian Filippo". La villa era completamente priva di strutture "protettive" e di una bellezza veramente incredibile.
Le piccole piantine della macchia mediterranea accarezzavano quasi con rispetto, la pietra tufacea bianchissima usata per realizzare i "cubilia" che costituiscono il paramento interno ed esterno dell'Opus reticolatum di cui sono fatte le sue murature. Intonaci in "cocciopesto" rivestivano ancora in più parti una bellissima vasca nella quale erano state realizzate delle "isole" circolari in laterizio, sicuramente usate come basamento per delle statue che servivano per il suo ornamento.
Perfettamente in asse, un piccolo anfiteatro a gradoni, sempre in cotto, concludeva quello che io considero il vero accesso alla "villa". Su questo termine ci sarebbe da discutere. La piccola dimensione dei locali presenti e l'impostazione "ludica" che predomina nella distribuzione funzionale del monumento mi fa pensare, come altri, che questa non fosse la vera residenza del nipote di Ottaviano. E' più probabile che si tratti di un semplice "bagno".
Proprio in questo modo la tradizione storica ci ha tramandato il monumento. In questo modo viene chiamato da Gaetano Chierici, quello che io considero il massimo studioso della Villa. Nel 1875 ebbe la fortuna di visitarla e studiarla per circa un mese, realizzando la famosa e rara pubblicazione nella quale sono presenti la pianta e le sezioni di questa, con la nomenclatura dei locali ancora presenti a quel tempo.
I pavimenti erano stati realizzati con tre tecniche principali. In mosaico, innanzitutto, con piccole tessere bianche e nere, come nelle altre ville dell'Arcipelago del primo secolo dopo Cristo. E poi in "semilateres", i "mattoncini" che a quel tempo venivano usati per costituire i piani di pendenza delle superfici esterne che convogliavano l'acqua pluviale in apposite cisterne, come quella ancora visibile in prossimità dell'anfiteatro. Venivano apparecchiati a "spinapesce" per conferire al dispositivo una maggiore resistenza all'azione dell'acqua.
Infine in "cocciopesto", una delle tecnologie più usate dai Romani. Questo pavimento veniva realizzato con macroelementi in cotto, polvere di mattone e breccino derivante dalla macinazione delle tegole rotte, impastato con malta di grassello di calce e polvere di marmo, molato a mano con l'uso di una pietra arenaria.
Le malte di allettamento degli altri pavimenti sono quasi tutte a base di calce aerea e tritello di pietra locale tufacea. Nei secoli si sono indurite ed hanno acquisita la resistenza necessaria a sfidare qualsiasi offesa del tempo. Fui colpito dal metodo di costruzione delle colonne che circondavano la vasca, realizzate in mattoni e sicuramente intonacate con intonaco a base di calce aerea e polvere di marmo.
Mi sono dilungato un po' ma la situazione lo richiede. Nonostante io sia un attempato ed appassionato esperto di restauro dei monumenti devo riconoscere che poche volte mi è capitato di emozionarmi a tal punto: siamo davanti ad uno dei più importanti monumenti archeologici dell'Arcipelago Toscano.
Sembrerà strano, ma la situazione di degrado dell'isola immersa nella macchia mediterranea con la sua "semplice" e delicatissima bellezza impregnata di "decadenza", è la sensazione che più ricordai e sono certo che sia proprio questa la caratteristica che ne sancisce l'unicità: è uno scrigno di tesori fra i quali la Villa (bagni) di Agrippa è la gemma più rara.
Sono tornato alcuni anni dopo perché cominciai i miei studi sulle fortificazioni pisane.
La mia attività di studioso dei monumenti dell'Elba, iniziata appunto intorno al 1987, mi obbligava ad occuparmi anche di quelle di Pianosa, situate nella zona prospiciente il piccolo porto dell'isola, compresa fra la Darsena, la Darsinetta e lo scoglio del Marzocco.
Questa mia attività di ricerca, mi ha tenuto lontano dalla Villa di Agrippa, poiché approfittavo del poco tempo di permanenza concessomi sull'isola, per analizzare i pochissimi resti della fortificazione pisana e soprattutto cercare le tracce di una torre che, distrutta e riedifica varie volte, doveva essere presente in quell'area.
Un giorno, nel corso di una delle mie "visite" sull'isola, guardando verso Cala San Giovanni, vidi una struttura bianchissima stagliarsi contro l'orizzonte. Non posso nascondere lo stupore che mi colpì. Poiché non capivo bene che cosa stavo guardando. Una bianca copertura di tela faceva sfoggio di sé, sostenuta da una tensostruttura composta da una numerosa serie di pali di acciaio verniciati di celeste, ancorata su plinti in calcestruzzo ed irrigidita da cavetti in trefola di acciaio.
Giudicai subito negativamente l'intervento e pensai di parlarne con gli amici della Soprindenza, anche per chiedere eventuali spiegazioni. Pensai che l'intervento fosse stato fatto da personale dell'Amministrazione Carceraria dell'isola, abituata a far fronte ai problemi di conservazione dei monumenti di Pianosa, "arrangiandosi" con personale artigiano facente parte dei detenuti.
Come ebbe a dirmi l'allora Direttore, "facevano quello che potevano", avendo pochi mezzi per far fronte alla onerosa situazione della conservazione dei monumenti dell'isola. Non posso nascondere di averne parlato più volte con stretti amici dell'Elba e di aver più volte espresso un parere assolutamente negativo su questo intervento. Solo in seguito seppi che era stato condotto sotto il controllo di personale della Soprintendenza e da allora non mi sono mai spiegato la ragione di quanto avevo visto.
Gli errori che sono stati commessi sono a mio avviso di varia natura. Il primo è quello dal punto di vista "estetico", in linguaggio accademico si definisce "formale". La tensostruttura, con la sua particolarissima forma a "campane", ha completamente stravolto il delicato equilibrio prospettico che caratterizzava i resti della Villa nel loro delicato rapporto con l'ambiente circostante.
Trattandosi di paramenti murari molto bassi e realizzati in semplice pietra del colore del suolo su cui insistono, la loro valenza formale è così delicata che la massa troppo imponente e colorata della tensostruttura li ha completamente annullati. In breve, è diventata più importante quest'ultima degli stessi resti. La presenza dei pali colorati in celeste all'interno dell'area archeologica ha poi falsato completamente la lettura dei ruderi e costituito un insieme formale molto compromesso.
Presumo che questa scelta sia stata originata dalla necessità di difendere i resti della Villa dalle piogge meteoriche e che quindi si sia voluta realizzare una struttura protettiva. Siamo davanti ad un evidente compromesso, che però non doveva essere accettato per le troppo lesive ed antiestetiche ricadute che in effetti ha provocato. Come evidenzia lo stato di conservazione dei ruderi, in duemila anni il degrado è stato limitatissimo e non certo provocato dalle poche piogge che interessano l'isola.
Gli altri sono errori di natura tecnologica e metodologica. In primo luogo si è cercato di proteggere i paramenti murari della villa con la realizzazione di scorsaline in lastra di piombo murate a malta di cemento sulla sommità di questi. E' evidente che si sia cercata questa strada per difendere questi paramenti murari dalle acque meteoriche.
Ma allora c'è da chiedersi: a cosa serviva la copertura sostenuta dalla "discutibile" tensostruttura, in quanto l'acqua meteorica avrebbe dovuto essere intercettata proprio da questa? Se ne deduce che uno dei due lavori è completamente inutile in quanto le due tecnologie si escludono a vicenda.
La messa in opera di questa lastra di piombo ha comportato un parziale "ricarico" della medesima per stabilizzarla e "collegarla" alla sommità del muro. I fautori di questo intervento, sono stati obbligati a "regolarizzare" la sommità del muro e forse ad asportarne delle porzioni superficiali che sono state in seguito "rimurate" sopra a questa lastra per ottenere un piccolo aggetto "protettivo" ed impedire all'acqua di entrare dentro la porzione "a sacco" dell'Opus Reticulatum.
Oltre al danno arrecato alla piacevole irregolarità della sommità del muro che si doveva leggere come un rudere e non come un'opera moderna, il risultato è stato quello di "bruciare" col cemento i paramenti murari nella loro sommità e quindi di causarne un completo dissesto apicale, perfettamente visibile anche da lontano. La posa in opera di queste abbondanti porzioni di malta cementizia ha provocata a mio avviso la totale compromissione della lettura dell'apparato murario originale che risulta in più punti irrediabilmente lesionato e compromesso nella sua "apparecchiatura".
Non so valutare, senza una profonda e ravvicinata indagine sul posto, i rimedi da approntare per il ripristino della situazione poiché, asportando le porzioni di malta cementizia si asporterebbero sicuramente altre porzioni di malta, inerti e laterizi originali presenti. Siamo forse davanti ad un danno che, a mio avviso, potrebbe non essere rimediabile.
Le porzioni di intonaco poste in opera su questi paramenti sono state realizzate anch'esse in malta cementizia, aggravando la già compromessa situazione dovuta alle scorsaline in lastra di piombo. E' evidente che si è inteso ricostruire delle porzioni di paramento esterno e di conferirgli una maggiore solidità, ma la tecnica utilizzata, non trova riscontro in nessuna etica di intervento per la quale si raccomanda invece la "assoluta conservazione della patina antica originaria" sia su intonaci che sulle pietre facenti parti della struttura.
La malta cementizia posta in opera, non solo ha completamente coperto la patinatura del paramento dovuta al tempo, ma se si intendesse asportarla, si andrebbe incontro ancora una volta alla completa asportazione degli strati su cui è stata posta e insieme a questi alla loro antica patinatura.
Bisognava limitare l'intervento alle sole "riprese" assolutamente necessarie alla stabilità del paramento ma realizzandole con malte il più vicino possibile a quelle adoperate dagli antichi costruttori, e quindi a base di calce aerea di grassello e non certo con malte confezionate a base di moderno cemento. Ritengo veramente sbagliata la soluzione adottata.
Un altro errore è stato quello inerente la conservazione e stabilizzazione dei mosaici. Si è scelta una soluzione a mio avviso ancora errata dal punto di vista tecnologico. Qui la lastra di piombo è stata adoperata per circondare le aree a mosaico esistenti, piegandola a squadra e ponendola in opera lungo il perimetro esterno dei mosaici, accostandola direttamente alle tesserine perimetrali costituenti il mosaico stesso.
L'errore è stato quello di fissare, ancora una volta con malta cementizia, la lastra di piombo direttamente sul piano di calpestio ed impedire così la libera dilatazione del mosaico che è stato compresso in una micidiale "stretta". Il mosaico, essendo molto discontinuo e costituito da materiale con indice di dilatazione diverso da quello del sistema piombo cemento, ha finito per essere sollecitato dai movimenti del metallo e del cemento, arrivando in più punti al suo distaccamento ed alla espulsione di parti del medesimo.
In altri punti il movimento è stato tale che si è avuto anche il sollevamento della massa del mosaico dal suo piano di posa. Il danno provocato non può certo essere riparato con il riposizionamento delle tessere del mosaico espulse utilizzando malta moderna, come mi è parso di vedere nelle foto pubblicate sui giornali, poiché costituirebbe un clamoroso "falso".
Un'ultima osservazione va fatta sulla scelta inerente la stessa struttura. Si è progettata una soluzione a maglia obbligata e regolare, con attacchi al suolo "interni" all'area archeologica. Era a mio avviso più corretto progettarne una con gli attacchi "esterni" a questa e con la maglia non regolare e quindi adattabile con più elasticità al rispetto dei paramenti murari esistenti.
Questo tipo di dispositivo non avrebbe obbligato a posizionare le fondazioni dei pali in punti "obbligati" e si sarebbe evitato di posizionarle in punti tal volta lesivi per il tessuto archeologico del monumento. Avrebbe evitato anche l'erratissima soluzione di passare i cavi di tensionamento attraverso i paramenti murari originali tramite la realizzazione di "grossi buchi" ottenuti per demolizione del loro tessuto murario.
Conclusione. Personalmente sono molto contrario alla polemica. Chi mi conosce sa che preferisco la strada del confronto scientifico. In questo tipo di situazione che, vede purtroppo coinvolta la stessa Soprintendenza, accettare il "silenzio reverenziale" sarebbe stato contro la mia morale.
La mia posizione di esperto per la conservazione ed il Restauro dei Monumenti del Forum Centrale Unesco di Valencia "Universidad Y Patrimonio" e l'appartenenza al Comitato Scientifico del Forum della stessa organizzazione presso l'Università di Firenze, mi hanno fatto sentire il dovere di esporre con la più profonda serenità ma col massimo rigore scientifico il mio pensiero su questa triste questione. Mi unisco quindi alla protesta dei colleghi che mi hanno preceduto.
Conoscendo personalmente moltissimi funzionari ed ispettori delle nostre Soprintendenze, con i quali ho lavorato a stretto contatto per molti anni, sono il primo a riconoscerne la notevole preparazione e capacità scientifica. Proprio per non generalizzare cattive impressioni sul loro operato, mi auguro che casi come questo non si possano verificare ancora in futuro.
Questa mia analisi della situazione non vuol essere una offesa per nessuno e tanto meno per la Soprintendenza interessata. E' semplicemente una riflessione di studioso su un intervento di restauro dagli aspetti molto discutibili.
* Architetto, esperto del Forum Centrale Unesco "University and Eritage", membro del Comitato Scientifico del Forum Unesco "Università e Patrimonio" della Facoltà di Architettura di Firenze, professore a contratto di "Tecnologia dell'Architettura", Università degli Studi di Firenze